Positività tossica, due parole e un significato: la sconfitta delle emozioni all’epoca della produttività “a-ogni-costo” e della “scienza della felicità”.
Positività tossica: una breve introduzione
La “psicologia del benessere” fa la sua comparsa alla tornata del Nuovo Millennio, fra il 1998 e il 2000. La nuova branca della psicologia si afferma oltreoceano, negli USA, a opera di Martin Seligman e compagine. La nuova disciplina si pone un obiettivo semplice: spiegare la felicità dal punto di vista psicologico e definirne il funzionamento.
La “scienza della felicità” ha avuto un impatto importantissimo all’interno del contesto socio-economico statunitense (e di riflesso, su tutta l’orbita geopolitica a esso afferente), e ha posto in luce quattro principali nodi problematici:
- il primo: il rapporto tra felicità e politica;
- il secondo: la giustificazione dell’individualismo neo-liberista;
- il terzo: felicità e mondo del lavoro;
- il quarto: la mercificazione della felicità.
All’interno del nostro articolo parleremo nello specifico dei punti 3 e 4, del rapporto tra felicità e mondo del lavoro e della mercificazione della felicità. Riteniamo che ad oggi – visto lo stato pandemico globale – siano i più importanti, o quantomeno i più urgenti di cui dover parlare.
Sei curioso di sapere come la pensiamo sugli altri due nodi del problema riguardo alla positività tossica? Scrivici nei commenti!
Positività e produttività
Il rapporto tra positività e produttività, ossia tra felicità e mondo del lavoro, genera diversi tipi di preoccupazione. Il dubbio principale è di carattere sociologico. Analizzata nella sua più ampia prospettiva, la scienza della felicità sembrerebbe infatti il bene supremo cui tutta la collettività debba tendere. In un’ottica idealizzata e ingenua, probabilmente, questo potrebbe sembrare vero.
La realtà, però, è purtroppo un’altra. La ricerca della felicità è diventata la giustificazione alla “ricerca del sé”, incentivando l’idea per cui ricchezza/povertà, felicità/sofferenza e successo/fallimento dipendano in modo esclusivo dal singolo individuo. La ricerca della felicità è perciò anche l’atto estremo di ricerca egoistica di sé, ricerca che si esprime nel neoliberismo individualista più sfrenato.
La felicità come metodo o scienza porta inevitabilmente alla ricerca del successo come legittimazione di sé, avallando l’idea per cui non esistono deficit collettivi, ma solo deficit individuali misurabili e “curabili” con il giusto “cambio di approccio” alla vita.
Il risultato è l’esaltazione della produttività come felicità: l’individuo produttivo è felice per conseguenza di azione, non per desiderio di esserlo. Ogni individuo è “felice” solo quanto le condizioni produttive gli permettono di esserlo.
Non è forse questo un controsenso? Se dipendesse solo dalla mente individuale, nessuno dovrebbe essere infelice/improduttivo. Ciò accade perché l’individuo vive immerso nel sistema sociale, e non isolato dal mondo. È evidente, perciò, che il trionfo dell’individualismo come metodo di accesso alla felicità generi solo frammentazione sul piano socio-culturale.
Prima contraddizione: ognuno è felice per sé (esaltazione dell’individuo “scollato” della collettività), ma solo qualora le condizioni glielo permettano (la collettività è il “collante” che dà forza agli individui).
L’arte di fingersi felici
E qui si arriva all’altro dolente punto. La mercificazione della felicità è lo scoglio più impervio che ci si pone davanti quando si parla di positività tossica. La preoccupazione di carattere morale che emerge riguarda tutta quell’industria che è prosperata grazie alla psicologia positiva. La nascita di tutti quei cosiddetti “guru del successo” ha incentivato l’idea per cui si vedono contrapposte felicità e sofferenza. La felicità, come già visto, è identificata con la produttività e con l’individuo funzionale e attivo, “normale”, mentre la sofferenza è una condizione diametralmente opposta.
I “guru del successo” perciò ci chiedono di scegliere se essere felici, cioè “normali”, o sofferenti, cioè “anormali” (come se la sofferenza fosse una condizione abominevole o inumana). E qui emerge un tratto piuttosto ingenuo della filosofia del successo dei “guru”, ossia che ci sia una reale possibilità di scelta (tra felicità e sofferenza) o che comunque esista un modo per debellare la sofferenza per sempre.
L’elemento più preoccupante che emerge da questa ingenuità è che, secondo i “guru”, chi non vede il “positivo” nei momenti difficili è sospettato di meritarsi le avversità. Questo perché la persona non avrebbe saputo cogliere “l’opportunità” di cambiamento (ammesso che poi fosse realmente possibile cambiare qualcosa).
Ed eccoci alla seconda contraddizione: chi vive momenti di sconforto o sofferenza e che decide (sempre ammesso che si possa “decidere”) di non cogliere quest’opportunità di cambiamento in “meglio” (in “meglio” non si sa bene rispetto a “che cosa”) allora è colpevole della propria infelicità, e non merita nessun tipo di aiuto (si può davvero dire lo stesso di persone meno fortunate, di persone disabili, ecc.?).
L’uomo felice – con un rovesciamento paradossale – è colui che essendo sofferente saprà comunque cogliere i frutti positivi di quest’esperienza, convincendosi di assaporare la succosa felicità – quasi fosse un oggetto.