Nella mostra allestita a Venezia negli spazi di Palazzo Franchetti, “Massimo Campigli e gli Etruschi. Una pagana felicità”, aperta fino al 30 settembre 2021, i curatori Franco e Alessia Calarota sottolineano l’intimo profondo dialogo fra trentacinque opere dell’artista con una cinquantina di reperti risalenti al periodo etrusco. A partire da questo confronto/incontro Campigli condivide atmosfere, segni, colori, emozioni. Le composizioni, dall’impostazione chiaramente arcaica, spaziano dal 1928 al 1966.
Molte delle testimonianze della civiltà etrusca sono inedite ed esposte qui per la prima volta. Sono forme che rappresentano statue votive. Figure femminili con busti/clessidra immerse nella dimensione atemporale dell’astrazione. Ispirandosi a tali profili espressivi Campigli ottiene quella particolare pittura. Quel taglio compositivo originalissimo dove il tempo perde spessore. Ed è come vivere in una quiete impassibile. Dove lo spazio è invaso dalle donne anfora.
LE DONNE ANFORA
Gli esegeti di Campigli si sono spesso soffermati sulla sua attenzione per la donna. Così decisiva per il suo universo creativo. Senza mai considerarla, a parte pochissime eccezioni, oggetto sessuale. Da notare le eleganti strategie compositive che Campigli utilizza, all’interno delle quali i segni impiegati veicolano sottotesti leggibili con più significati: la collana come gioiello e come catena, tipico il Busto con il vaso blu, il diabolo come cordicella e come legame, la ringhiera come abbellimento e come inferriata. La mostra si sofferma sul rapporto dell’artista con l’altra metà del cielo.
Con le donne che diventano clessidre. Eleganti nei loro gioielli. Figure femminili rese mediante schemi geometrizzanti che si differenziano nelle cromie e nelle gestualità. Assumendo aspetti vagamente irreali. Tutte visioni che scatenano in Campigli una pagana felicità, come la descrive, dopo aver visitato nel 1928 il Museo Etrusco di Villa Giulia:
“Nei miei quadri entrò una pagana felicità tanto nello spirito dei soggetti che nello spirito del lavoro che si fece più libero e lirico”.
GLI ZINGARI
Liricità e libertà narrativa sicuramente rintracciabili nella prima sala di Palazzo Franchetti dove sono esposti due manufatti: un sarcofago e il quadro gli Zingari del 1928. In primo piano una donna con la schiena nuda e un’anfora sotto il braccio sinistro appoggiata sul fianco. Avvolta in una lunga gonna. Che guarda, forse, il cavaliere. In attesa. Ma lui, distante e nudo, rimane sul cavallo. Inattivo. Guarda solo la luna. Sullo sfondo frammenti dell’acquedotto romano, sofisticate costruzioni ingegneristiche che testimoniano i profondi legami di Campigli con la storia. A partire dalla sua. Da quando viene assunto al Corriere della Sera e inviato come corrispondente a Parigi. Pittore di giorno, giornalista di notte. Vive a Montparnasse. Frequenti le incursioni al Café Dôme. Insieme a De Chirico, Mario Tozzi, Gino Severini, De Pisis, Renato Paresce, e Alberto Savinio, forma il gruppo de “I sette di Parigi”. Come se volesse legittimarsi. Trovare la propria identità.
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