Quasi tutti gli sportivi di successo hanno raccontato la propria vita in un'autobiografia che celebrasse la loro carriera. Tutte queste storie seguono uno schema logico più o meno definito: da bambini scoprono il loro talento, che in molti casi permette di uscire da una condizione sociale difficile, lo coltivano, fanno sacrifici, rinunce e alla fine vincono, lasciano un segno nella storia dello sport. Ma la storia di Andre agassi stravolge completamente questo schema, parte dalla conclusione, come se avesse trascorso tutta la sua carriera aspettando l'ultimo match per potersi finalmente liberare del tennis, perché lo odia, e l'ha sempre odiato. “Odio il tennis, lo odio con tutto il cuore, eppure continuo a giocare, continuo a palleggiare tutta la mattina, tutto il pomeriggio, perché non ho scelta. Per quanto voglia fermarmi non ci riesco. Continuo a implorarmi di smettere e continuo a giocare, e questo divario, questo conflitto, tra ciò che voglio e ciò che effettivamente faccio mi appare l'essenza della mia vita.”
Andre nasce con la racchetta in mano, il suo futuro è già deciso dal padre Mike, un iraniano ex-pugile scappato in America: “Se colpisci 2500 palle al giorno, cioè 17 500 la settimana, cioè un 1 000 000 di palle l'anno, non potrai che diventare il numero uno”. Fin da subito associa al tennis l'idea di un qualcosa di brutto, il padre infatti per permettergli di allenarsi tutto il giorno costruisce una macchina sputapalle che ai suoi occhi da bambino appare come un drago. L'unico scopo della vita di Mike è insegnare ad Andre la perfezione nel gioco del tennis. Non ci sarà spazio per null'altro. Solo il tennis. E il tennis diventerà per lui una vera ossessione, la sua gioia e il suo dolore di vivere. Il giovane Agassi non si ribella, non ha il coraggio di dire al padre che non vuole giocare a tennis, e ogni volta che ci prova gli vengono in mente le scene in cui l'ex-pugile arrabbiato stende un camionista dopo un litigio, e desiste. Ma non mette mai in dubbio l'amore per suo padre, vorrebbe solo che fosse meno duro e rabbioso e più disposto ad ascoltarlo. Così Andre trasferisce la sua voglia di ribellione verso il padre nei confronti del tennis stesso, che si manifesta per la prima volta quando a 14 anni viene mandato alla Nick Bollettieri Tennis Accademy e si presenta ad una finale giovanile con jeans corti, orecchino, trucco in faccia e smalto sulle dita. Il primo di tanti comportamenti non convenzionali che destarono scalpore in quell'austero mondo, tanto da valergli il soprannome di “rockstar del tennis”. Poi arriva la vittoria, che è sinonimo di ricompensa per i sacrifici fatti, di soddisfazione, gloria, soldi. Ma Agassi anche in questo caso è diverso da tutti gli altri, non riuscirà mai a godersi pienamente una vittoria perché non sa se è diventato un tennista perché lo voleva, perché obbligato o perché non avrebbe saputo fare altro. “Vincere non cambia niente. Adesso che ho vinto uno Slam, so qualcosa che a pochissimi al mondo è concesso sapere. Una vittoria non è così piacevole quant'è dolorosa una sconfitta”. E poi: il matrimonio con la modella Brooke Shields, l'uso di metanfetamina, il divorzio, la rinascita, il secondo matrimonio con la tennista Steffie Graf. Open è molto più di un'autobiografia di un tennista, è un romanzo che si interroga sul senso della vita e la partita a cui si assiste è quella che giochiamo tutti: contro noi stessi.