Fra le pittrici italiane vissute tra Cinque e Seicento, accanto a Sofonisba Anguissola e Artemisia Gentileschi, si fa notare Fede Galizia. La globalità della sua opera è ora analizzata nella prima rassegna monografica a lei dedicata: Fede Galizia mirabile pittoressa, aperta a Trento al Castello del Buonconsiglio fino al 24 ottobre 2021.
Gli studi novecenteschi l’hanno classificata come autrice di nature morte. Genere esaltato in assoluto da Caravaggio, maestro straordinario. Come testimonia la sua Canestra di frutta del 1596, custodita presso la Biblioteca Ambrosiana Milano, con il soggetto che acquista assoluta autonomia. In base a quello straordinario salto concettuale che fa della natura morta una creazione nuova e non più un inciso che riempie una composizione. E soprattutto che non ha nulla da condividere con le inutili microscopie dei fiamminghi. (Roberto Longhi).
Il confronto
Se confrontiamo la Canestra del Merisi, con Alzata con prugne pere e una rosa del 1602 della Galizia cosa notiamo? Nel primo il cesto di vimini stracolmo di frutta deborda da tutte le parti. Frutta che manifesta diversi stadi di maturazione. Dagli acini succosi in primo piano alla mela bacata dietro. E poi quelle foglie bellissime verderame accartocciate tagliuzzate appassite, chiara metafora esistenziale. La vita appesa ad un ramo sottilissimo. Quindi la luce. Strumento inarrivabile di sintesi compositiva.
Nell’opera della Galizia, che conosciamo mediante una copia, lo sfondo è scuro. L’impatto percettivo è rigorosamente frontale. Nella frutta e nei fiori raffigurati prevale l’impostazione geometrica. Ancora Longhi definisce le sue nature morte “attente, ma come contristate”.
Nell’Alzata, sull’orlo del quadro come stesse per cadere esausta, attira l’attenzione quella rosa. Dipinta un attimo prima dell’inevitabile disfacimento. Con la corolla al massimo del suo dispiegarsi. Assetata di luce fino a sfociare nel bianco. Anche in questo caso l’ossimoro, che fa coesistere la fragilità dell’effimero con l’eterno della pittura.
Conclusione
In Galizia, mi si passi la locuzione, si legge una certa elegante bellezza. In Caravaggio si va oltre. Nella fiscella i frutti rimandano alla simbologia cristologica.
“La figura del cesto nel Cantico dei Cantici è il simbolo della sposa, ossia della Chiesa: lo sporgere in avanti della cesta verso lo spettatore sarebbe dunque un segno di offerta di sé nei confronti dell’umanità”.
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