Alcuni criticano lo scrittore Andrea De Carlo. Lo ha fatto nei primi anni Duemila Walter Pedullà nella sua “Storia generale della letteratura italiana”, dedicandogli poche righe negative. Persino nella voce enciclopedica della Treccani il suo linguaggio viene definito “semplificato”. Eppure De Carlo è stato scoperto insieme al compianto Daniele Del Giudice da Italo Calvino. Eppure anche Carlo Bo ebbe parole entusiastiche per il suo primo libro “Treno di panna”. Eppure De Carlo ha collaborato anche con mostri sacri del cinema come Fellini e Antonioni. Allora queste critiche, ovvero quelle di essere commerciale e di usare un linguaggio non propriamente letterario ma cinematografico, sono davvero sensate, legittime, ponderate? Oppure la stessa comunità letteraria invidia il successo di vendite, i soldi e la fama di De Carlo? De Carlo ha pubblicato una ventina di romanzi e ogni volta ha saputo rinnovarsi, non ripetendosi mai. De Carlo ha una facilità di scrittura invidiabile, ottime capacità descrittive, una grande ideazione e una grande immaginazione per creare sempre trame e personaggi nuovi, di cui viene sempre messa a fuoco la complessità psicologica. In un panorama narrativo in cui tutti sono in modo preponderante narratori alla Pavese o descrittori come Calvino, De Carlo spicca per la sua versatilità, dimostrando di essere entrambe le cose. Ho il sospetto che De Carlo non abbia avuto il giusto riconoscimento critico per invidia e anche perché, anche se non è di destra o liberale, non interpreta la realtà in modo ideologico, come tanto piace a molti intellettuali. Se avesse scritto libri politici in senso stretto, per quel che comunemente si intende, avrebbe avuto il plauso della critica. Altra cosa è che i romanzi di De Carlo non sono sperimentali e c’è il ricorso a un linguaggio piano. Intendiamoci: lo scrittore ha proprietà di linguaggio, dimostra grande talento, ma è anche comprensibile a molti. Forse questo viene visto come un difetto imperdonabile. Questa sua medietà a mio avviso non propriamente linguistica (perché i suoi romanzi denotano una certa ricchezza lessicale) ma culturale, priva di intellettualismi e di barocchismi, per intellettuali che prendono come punti di riferimento Sanguineti e Gadda, non è ben accetta e viene vista addirittura come antiletteraria. A mio avviso questo è un elitarismo che lascia il tempo che trova. A mio avviso la lettura dei suoi libri farebbe bene a tanti letterati che non sanno tagliare i rami secchi, che con l’intento di restituire la complessità della realtà la complicano ulteriormente e a volte la interpretano in modo errato. L’unico appunto valido a mio avviso che si può fargli è che i suoi personaggi in gran parte sono cetomedisti (non uso il termine medioborghesi perché è desueto), quasi tutti artisti e liberi professionisti. Prima cosa tra tutte: ogni scrittore ha un suo rovello, ha un suo leitmotiv, ma il nostro non si fa mai prendere dall’ossessione, non è mai roso da nessun tarlo, non è mai monotematico, sapendo innovare e variare. Lo scrittore ha quindi una sua predilezione, ma sa anche cambiare completamente registro ad esempio con “Uto” e “Macno”. È quindi uno scrittore che cerca e trova la molteplicità calviniana, anche se talvolta lo fa con molte variazioni del tema prediletto. D’altronde De Carlo come tutti ha un imprinting. Il grande Moravia in quasi tutti i suoi libri tratta dell’alta borghesia romana, tranne “La Ciociara” e poco altro, come rileva giustamente Gene Gnocchi, che non è solo un comico ma anche un valido scrittore. Inoltre quell’ambiente è ciò che lo scrittore conosce meglio, avendolo vissuto per molti anni ed essendo di estrazione borghese (quando ancora esisteva la borghesia, quando esistevano le classi sociali, cioè negli anni Sessanta, Settanta, Ottanta). Però è anche vero d’altro canto che lo scrittore ci racconta senza filtri la sua Milano in modo spietato e realistico. Chi vuole sapere come era la Milano bene degli anni Ottanta e Novanta deve leggere i suoi libri, che in questo senso sono un ritratto impietoso di una certa realtà socioculturale. Non solo ma va dato atto allo scrittore di non aver mai utilizzato le tre s (sesso, sangue, soldi) con cui i più costruiscono o cercano di costruire bestseller. Questo è un merito, così come un altro merito non indifferente è quello di aver scritto romanzi davvero generazionali, come “Due di due” e “Di noi tre”. Un mio amico un tempo mi disse che i romanzi di De Carlo erano belli ma non si imparava niente da essi. Se si pensa all’utilità pratica, allora tutti i romanzi sono inutili. Ma i romanzi ben scritti e ben congegnati come quelli di De Carlo riescono sempre a compiere quella che Tondelli definiva la ritestualizzazione di un mondo, a rappresentare una realtà come nessuno aveva mai fatto prima. E poi la Milano di De Carlo è un simbolo, di più un’allegoria dell’Italia intera, in cui molti si possono riconoscere e ritrovarsi. Il problema è proprio questo: spesso non vogliamo essere rappresentati con le nostre tare, le nostre contraddizioni, i nostri vizi, le nostre manie, le nostre debolezze. In fondo, facendo un parallelismo cinematografico, anche Carlo Verdone con i suoi film ci rappresenta con i nostri vizi, le nostre pecche, i nostri tic e questo ad alcuni non piace perché hanno un atteggiamento pseudoschizofrenico a riguardo: “non siamo così, questi non siamo noi” oppure “certe cose non doveva dirle, né descriverle”. E De Carlo invece è molto abile a osservarci, a descriverci, a restituire con il suo specchio mai deformato un’immagine attendibile e fedele di ciò che eravamo, di ciò che siamo o di ciò che vorremmo essere.