A metà degli anni 70′, la Commedia all’Italiana si sta avviando verso il suo canto del cigno, e forse è C’eravamo tanto amati di Ettore Scola la prima pellicola a decantare il declino non solo di un genere cinematografico che si era imposto con verve e ironia come testimone del suo tempo, ma insieme ad esso anche un periodo storico e sociale in procinto di cambiare inesorabilmente portando a galla contraddizioni e storture ancora non così evidenti. A conti fatti C’eravamo tanto amati si può definire un epitaffio su trent’anni d’Italia.
Un anno dopo uscirà Amici Miei di Mario Monicelli, e poi uscirà La Terrazza sempre di Scola che metterà una pietra definitiva su quella stagione cinematografica iniziata con I Soliti Ignoti sul finire degli anni 50′.
Il declino della Commedia all’italiana
La Commedia all’italiana infatti si era sempre fatta veicolo di critica sociale a situazioni altresì drammatiche, come potevano essere la guerra, le lotte sindacali ma anche solo semplicemente la lotta quotidiana per la sopravvivenza nella miseria, riuscendo tuttavia a imprimere una leggerezza narrativa beffarda e ironica e, spesso e volentieri, una forte simpateticità nei confronti dei personaggi, pezzenti ammantati di dignità anche nei momenti di sconfitta più neri.
In un momento di entusiasmo e di diffuso benessere come gli anni 60′, era quasi una esilarante terapia riuscire a ridere e riflettere al tempo stesso dei vizi e delle piccole miserie che giornali e testate giornalistiche non mettevano in prima pagina, come si suole dire, era viva e forte la capacità di ridere di sé stessi.
Ma già dall’inizio degli anni 70′ il clima in Italia inizia a cambiare sensibilmente. La crisi energetica, le tensioni politiche, le stragi e le bombe a cui faranno seguito il terrorismo e gli anni di piombo, lentamente si crea una situazione che troverà il suo culmine tra il 1977 e il 1978 ma che già nel 1974 è ben presente nell’aria.
E prima che film come Amici Miei e La Terrazza esplicitino come anche il modo di ridere non possa che cambiare, sostituendo alla sottile e beffarda leggerezza una cinica e disillusa amarezza, Scola compie un’operazione preliminare, ovvero il tirare le somme. Con il suo compie una resa dei conti, compone un epitaffio dolce-amaro, in cui ancora il nero non ha colorato del tutto la risata, ma il senso di disillusione inizia già a farsi sentire pesante e incombente.
La guerra finì, scoppiò il dopoguerra
L’operazione di Scola ha un suo antecedente in Una vita difficile di Dino Risi, dove già si analizzava il passaggio tra il dopoguerra e il boom economico tramite lo sguardo di un ex partigiano comunista convinto (Alberto Sordi), che schiacciato da condizioni di vita misere e alienanti si lascia comprare da un viscido e corrotto imprenditore dal quale però riesce alla fine ad emanciparsi in un impeto di orgoglio.
Le premesse di C’eravamo tanto amati sono simili, ma le conclusioni a cui approda, visti anche i tredici anni che separano una pellicola dall’altra, risultano piuttosto differenti.
Anche qui l’azione ha inizio nel 1945. E’ la fine della guerra, la catarsi dalla tragedia, un mondo da ricostruire, il trionfo della Resistenza. I personaggi che ci conducono attraverso trent’anni di storia italiana sono tre. Tre amici, ex partigiani, profondamente legati dall’esperienza di lotta sui monti ma anche profondamente diversi l’uno dall’altro.
Il portantino, il professore e l’avvocato
Antonio (Nino Manfredi) è un tipo concreto, spontaneo, a tratti un po’ sempliciotto, ma profondamente onesto e leale. Milita attivamente nel PCI e fa il portantino di ospedale, posto da cui non può sperare di avanzare dato il suo esplicito credo politico osteggiato dalle monache, ma questo gli crei troppi problemi, così poco avvezzo ad avere alte ambizioni se non la speranza, sempre disillusa, di veder vincere il suo partito alle elezioni.
Nelle intenzioni dell’autore, Antonio è la rappresentazione della forza e del coraggio di chi riesce ad essere sincero e coerente con sé stesso fino alla fine, di chi non rinuncia e ai propri ideali ma neanche insegue sogni velleitari, di chi annaspando a testa alta nelle sconfitte finisce poi per esserne ripagato.
Poi c’è Nicola (Stefano Satta Flores). Intellettuale, professorino cinefilo e logorroico, sognatore idealista e polemico che per indole non può che essere eternamente insoddisfatto del suo presente e perseguire una gloria effimera e sfuggente. Non è un carattere negativo, ma a differenza del pragmatismo di Antonio, a cui l’arte di arrangiarsi e accontentarsi riserverà amare sorprese ma anche inaspettati premi, Nicola è invece destinato all’eterna sconfitta e alla disillusione. Su di lui aleggia un affettuoso patetismo, a tratti grottesco, facendone però anche il personaggio il cui sguardo è più affine a quello dell’autore.
E infine c’è Gianni (Vittorio Gassman), l’ambizioso e il vincente. Studente di giurisprudenza e apprendista di un facoltoso avvocato di cui è il sicuro successore, Gianni è l’idealista che finisce per tradire gli altri (e sé stesso) di fronte alle lusinghe di una vita più agiata, colui che sa farsi forte e spregiudicato per sorpassare e scavalcare il prossimo e che si ritrova per avere tutto quanto si possa desiderare ma pagando lo scotto del rimorso e della vergogna.
Il loro viaggio tra il 1945 fino al 1975, che diventa anche il nostro, ci porta da un’Italia liberata speranzosa e pronta a ricominciare da capo, ad un paese dove “è cambiato tutto pur du non far cambiare nulla” e di cui restano solo malinconici frammenti del passato.
Vincerà l’amicizia o l’amore?
Come collante delle vicissitudini c’è invece Luciana (Stefania Sandrelli), un’aspirante attrice friulana un po’ naif il cui amore finirà per toccare tutti e tre i protagonisti ; prima infatti si fidanza con Antonio, poi lo tradisce per Gianni e quando viene lasciata da quest’ultimo passa una notte d’amore con Nicola, per poi tornare dopo anni di solitudine con il bonario portantino.
Luciana è un personaggio a tratti simbolico, una rappresentazione di chimerica felicità, di sfuggente destino, anche se pure lei si ritrova ad essere sballottata dagli eventi e a ridimensionare i propri sogni e le proprie aspirazioni, e con lei il Paese in evoluzione sullo sfondo.
Passa così da attricetta teatrale con grandi ambizioni di carriera a tentare la fortuna come comparsa sul set della Dolce Vita di Federico Fellini, fino ad accettare di accedere al mondo dello spettacolo solo facendo la maschera in un cinema.
Il suo progressivo svilimento, tra evidenti problemi di alcolismo e un figlio lasciatole da un uomo che l’ha abbandonata, trova però un lieto finale con il ricongiungimento con Antonio, l’unico che trova il coraggio di guardarsi indietro senza essere sopraffatto dai rimpianti e dunque l’unico a cui idealmente è affidata la speranza per un futuro migliore.
Pensavamo di cambiare il mondo, e invece è il mondo che ha cambiato a’ noi
Nicola, come abbiamo già detto, è invece la vittima della propria ingenua velleità, così proiettato su grandi progetti per un futuro rivoluzionario da non non riuscire a reggere il peso del presente.
Cacciato dall’insegnamento per aver difeso Ladri di Biciclette dalle illazioni reazionarie e democristiane dei suoi superiori, Nicola lascia moglie e figlioletto alsuo paesino, Nocera Inferiore, e parte, sacca di libri come unico bagaglio, alla volta di Roma con il sogno di diventare scrittore e critico cinematografico. Ma dopo una cocente sconfitta a Lascia o Raddoppia , sulla cui vittoria aveva puntato tutto, finisce per scrivere solo in piccoli quotidiani vivendo nel rimorso per quella domanda fatale, a cui teoricamente aveva pure dato la risposta giusta ma che per un inghippo lessicale gli è stata conteggiata erronea, proprio sull’adorato Ladri di Biciclette. Tutto ciò che gli resta è assistere impotente al disfacimento culturale del suo Paese, senza poterne diventare uno strenuo difensore.
Saranno i Gianni Perego che faranno di questa società una società più onesta e più giusta
Gianni è invece la personificazione di quel disfacimento. Un personaggio misero e meschino, carnefice e vittima di sé stesso e di ciò che ha intorno. Inizialmente lo vediamo aitante e bramoso di giustizia proletaria quando viene mandato a notificare delle ingiunzioni legali al corrotto palazzinaro Catenacci (Aldo Fabrizi), imprenditore fascista e criminaloide, ma farà invece molto presto a diventare il suo avvocato personale sposandone anche la figlia Elide (Giovanna Ralli), più per mero interesse che per amore.
La pochezza morale di Gianni è già evidente nei pochi scrupoli che sembra farsi quando si fidanza con Luciana portandola via ad Antonio, ma il suo disfacimento si fa sempre più evidente nei rapporti con il suocero, personaggio vile e volgare la cui ricchezza e influenza finiscono però per essere fagocitate dal più risoluto e furbo genero, al cui confronto appare piccolo e patetico, e soprattutto con la moglie, la cui metamorfosi da burina semi-analfabeta a intellettuale profonda e sensibile va in controtendenza a quella del marito, sempre più gretto, sempre più freddo e vuoto, esattamente come la sua villa, abitata da figli e parenti incapaci di comunicare tra loro e che uno a uno lasceranno Gianni totalmente solo a tormentarsi nei suoi rimorsi.
L’ultima a dargli un inascoltato avvertimento sul baratro in cui si trova sarà lo spirito di Elide, morta in un incidente d’auto, forse l’ unica persona ad avergli dato la possibilità di amare veramente qualcuno.
La nostra generazione ha fatto veramente schifo
Nel finale i tre amici finiscono per incontrarsi di nuovo, vanno a a mangiare in una trattoria, luogo simbolo dell’intera storia, teatro di di presenze e personaggi di un mondo in estinzione, e qui ricorderanno, rideranno e litigheranno come sempre. L’unico che non ha il coraggio di esporsi a cuore aperto è Gianni, che nonostante un breve barlume di coscienza, non trova il coraggio di rivelare ai due di essere diventato il loro nemico, ciò per il quale la loro amicizia si è rinvigorita combattendo.
Finendo la serata in una veglia notturna di fronte ad una scuola, Antonio “presenta” ai due amici la sua moglie, Luciana, poi va con Nicola ad intonare un canto partigiano suonato da alcuni ragazzi, ricordando i bei tempi andati. Gianni invece tenta un ultimo disperato tentativo di riconquistare Luciana, dal cui ricordo è sempre stato ossessionato, ma questa volta è troppo tardi, adesso lei è unicamente legata ad Antonio.
La farsa può dunque finire. Gianni torna livido e mesto alla sua villa dove Antonio, Nicola e Luciana lo troveranno il mattino dopo seguendo le indicazioni della patente che ha smarrito. Tutte le speranze sorte la sera prima di avere riformato il cerchio, rinvigorito le amicizie e saldato i ricordi perduti si infrangono nella disillusione più silenziosa. Non c’è rabbia, non c’è catarsi, solo la consapevolezza che qualcosa si è rotto. Qualcosa per la quale non ci sono neanche le parole con cui esprimersi, giusto qualche laconico “Boh”. I tre si allontanano battibeccando e il film ci da’ il suo commiato.
Un epitaffio su trent’anni d’Italia (e oltre)
Sono passati quasi 50 anni da quel 1974 e altre generazioni di Antonio, Nicola e Gianni si sono succedute. Chi ha avuto il testimone per portare avanti il futuro? I fatti sembrerebbero suggerirci che sono effettivamente i stati i Gianni a vincere, davanti allo smarrimento dei Nicola e alla scarsità numerica degli Antonio. Il mondo non è cambiato, chi pensava di cambiarlo sì. Anche se il futuro non smette mai di scrivere la sua storia.
Quello che è certo è che ridere, ridere, leggero, ridere di sé stessi con garbo e sottigliezza, è qualcosa che da quel momento in poi è stata sempre più difficile nel nostro cinema, e anche nella vita.
...eravam tutti pronti a morire ma della morte noi mai parlavam, parlavamo del futuro che il destino ci allontana, il ricordo di quei giorni sempre uniti ci terrà…
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